Texte de Nicoletta

Pronti, partenza, via. Il Ring corre e oscilla, e io sopra: con il tablet in bilico sulle ginocchia e il telefonino in bilico sul tablet. Che strana partenza: me ne vado per 24 ore, e per 24 ore starò sempre sul posto, come in una scena di Alice nel Paese delle Meraviglie, dove i buffi personaggi del romanzo correvano sul posto per asciugarsi. Il paese delle meraviglie che vado ad attraversare io – anzi, a circmnavigare – è Berlino. Paese delle Meraviglie per chi arriva, meno per chi resta. Città multiforme, bella, brutta, stancante, giovane, vecchia….La città che da quattordici anni, tra momenti di amore e momenti di odio, è diventata casa mia. Quindi se avete voglia accompagnatemi in questo strano viaggio in tondo, in quella sarà, secondo la migliore tradizione, unGuida turistica filosofico sentimentale nella città di Berlino…..
Da dove iniziare, quando si va in cerchio? Come trovare la posizione più comoda? Il treno corre e oscilla, e con lui io, la mia borsa, il tablet su cui è poggiata la borsa, e il telefono che è appoggiato sul tablet per poter utilizzare l’hot spot. E voi, a casa, siete comodi? Avete preso una bella tazza di tè – per la birra forse è un po’ troppo presto -, avete scelto una poltrona, avete già fatto la spesa? Ad ogni modo i miei compagni viaggiatori – non gli altri autori, ma i viaggiatori – non sembrano molto rilassati con noi scribacchini e le telecamere di fianco. Ostentano la tipica indifferenza berlinese: la signora di fronte a me, i capelli grigi e gli occhiali rosso fuoco, legge da venti minuti la stessa pagina della Bild. Cosa improbabile, visto che sicuramente sulla Bild tutt’al più si possono guardare solo le figure. La Bild è uno dei giornali più divertenti che conosco. Uno dei miei progetti futuri è di fare un giorno un’istallazione artistica tappezzando una stanza con tutti i titoli più assurdi. Mi ricordo per esempio i caratteri cubitali: “Hitler era radiocomandato dagli extraterrestri?” Da allora questa domanda mi perseguita. Da allora provo un immediato, incontrollabile interesse per tutti i lettori della Bild: anche loro sono telecomandati dagli extraterrestrri?
Ed è per quello che consiglio a tutti i nuovi arrivati a Berlino di cercare di imparare immediatamente la lingua. Non per conversare con i berlinesi – che se sono veri berlinesi doc non vorranno parlare con voi, in quanto potenziali turisti, e che se non sono berlinesi ma vengono dal sud della Germania vi parleranno immediatamente in inglese -, no: ma per leggere i giornali. I giornali non so se sono lo specchio di un popolo, ma quantomeno possono essere divertenti. Io ho imparato il tedesco leggendo i sottitoli delle foto dei giornali di pettegolezzi: cosa che ovviamente ha fatto sì che il mio lessico fosse abbastanza particolare. Potevo chiacchierare con le parrucchiere, ma non ne incontravo molte molto spesso. Per questo i miei primi anni berlinesi sono stati molto solitari. Quindi, ripeto: imparate il tedesco.
Traducete i titoli della Bild, fatevi quattro risate, poi passate a Gala, il giornale dei pettegolezzi, e prima o poi sarete pronti per un dialogo con le parrucchiere. Poi, prima o poi, potrete addirittura andare dal panettiere, ordinare due schrippen, i panini  e comprare il Tagesspiegel e la Berliner Zeitung, i due giornali berlinesi. E qui l’altra cosa da sapere: non ci sono le edicole, qui. I giornali li prendete dal panettiere, al supermercato, o in quella istituzione meravigliosa che è lo Späti. Ma questo nel paragrafo successivo.
Adesso bevetevi un’altra tazza di tè, oppure alzatevi un attimo per prepararvi il pranzo. Potete anche bere un bicchierino di vino, l’ora ormai è quella giusta. Intanto qui stiamo per finire il primo giro. Dal finestrino il grigio è rimasto uguale: abbiamo passato il grigio ikea di tempelhof, il grigio post comunista di Frankfurter allee, il grigio nero dei mucchi di carbone di Westhafen, il grigio boehmièn di Prenzlauer Berg. Siamo tornati a Schönhauser alle: ora di mandare il testo, sgranchirsi le dita, e passare al prossimo tema.

Lo Späti, il salvatore dei berlinesi.

Quando sono arrivata a Berlino, nei primi anni, la spesa del sabato era uno dei miei incubi ricorrenti. I negozi chiudevano alle quattro del pomeriggio (i supermercati) o alle due (tutto il resto). Morale, anche nei selvaggi anni della gioventù, quando il sabato lo si vorrebbe passare a ciondolare a letto, mi toccava uscire per tempo, se volevo arrivare fino al lunedì senza morire di fame. Mi capitava di andare a letto presto apposta perché volevo fare un giro di shopping, e quindi dovevo calcolare di uscire di casa quantomeno prima di mezzogiorno (un incubo, per chi ama dormire come me).

Era una vita come in un paesino piccino picciò: e Berlino aveva ancora molto del paesino piccino. Era un assurdo, buffo mix di una città che si ritrova ad essere capitale senza aver capito ancora bene cosa era successo, e che non si prende poi troppo sul serio nel suo nuovo ruolo (è così ancora adesso), di anarchia, di punk e punkettoni, di case cadenti, caffè bui illuminati da candele che sembravano appena usciti da una canzone di Tom Waits, club illegali, gallerie d’arte illegali, vecchiettini incazzati che ti urlavano dietro se osavi attraversare la strada con il rosso, e negozi che chiudevano alle 14. Un mix molto particolare insomma, in cui bisognava barcamenarsi per non diventare schizofrenici– e in cui il sabato si era tenuti ad alzarsi presto.

Fino a che qualcosa è iniziato a cambiare: i supermercati hanno cominciato a tenere aperto fino alle sei. Poi alle sette. Poi alle otto, di pari passo con i cambiamenti della città che si modernizzava e si internazionalizzava sempre di più, e con i prezzi delle case che salivano. Ora esistono addirittura supermercati aperti fino a mezzanotte (rari). Della domenica non se ne parla ancora, è rimasta sacra. Quando torno in Italia, anche se mi dispiace molto per chi è costretto a lavorare il fine settimana, mi sembra di essere arrivata nel paese della cuccagna: ho dimenticato di comprare il latte, il pane, i pinoli, il cumino, le mollette per il bucato, gli assorbenti, le pile, una torcia elettrica, l’ultimo romanzo di Camilleri….no problem, c’è sempre un ipermercato aperto, anche nel posto più sperduto, tra le colline, tra i capannoni industriali della Brianza, che offre di tutto l’essenziale e il superfluo, l’utile e il dilettevole…Il centro commerciale sempre aperto, ormai, in Italia è una certezza. A Berlino no.

A Berlino, la certezza, il pilastro, il faro nella notte, è lui, lo Späti: nomignolo affettuoso e familiare per il più lungo e serioso nome ufficiale, Spätkauf, ovvero colui che è autorizzato a vendere fino a tardi, addirittura tutta la notte, e addirittura la domenica. Non pensate però che riesca ad emluare il famoso ipermercato. E non nemmeno una magica bottega orientale, anche se i proprietari sono solitamente o turchi o vietnamiti. La funzione principale dello Späti è di provvedere ai veri, urgenti bisogni umani: ovvero alcool e sigarette. Il vero Späti mostra orgoglioso file e file delle birre più diverse, nelle vetrine delle celle frigorifere. Sono collezionisti, intenditori di birre. Poi ci sono vino, sigarette, e, a seconda dello Späti, anche altri generi considerati di prima necessità. Alcuni vendono anche pane tostato, biscotti, prosciutto di plastica rosa con venature violacee, formaggio di plastica bianca con venature giallastre, e hanno una piccola scelta di surgelati. Il mio, quello sotto casa, punta all’essenziale. Ci sono almeno diciotto tipi di birre diverse, almeno cinque di vino, alcune postazioni internet dall’odore inquietante, biscotti al cioccolato di provenienza russa e turca, e latte intero a lunga conservazione. Io sono una fedele compratrice dei biscotti – mi inquietano, ma sono buoni, ho sviluppato una strana dipendenza – e di latte, perché me lo dimentico sempre, e allora ne acquisto una confezione di ritorno dal cinema o dalla cena con amici. Ammetto che sono una persona socievole e un po’ paurosa, e quindi amo molto l’idea di avere negozi sempre aperti nella mia strada. E mi fa piacere parlare con qualcuno. Vorrei mostrare anche quello che ho imparato a lezione di turco e sfodero sempre il migliore “Merhaba” ma il ragazzo alla cassa non è molto collaborativo: alza il sopracciglio dal suo cellulare, guarda con disprezzo il mio cartone di latte coi biscotti, batte il prezzo, incassa, e torna al suo telefonino, che non ha mai abbandonato veramente, nemmeno per un attimo. Ugualmente io, al mio späti, ci sono affezionata. Anzi, ora, da qui, dal Ring, mi sembra lontanissimo. Esiste qualcosa oltre il treno che gira e gira attorno a Berlino? Dai sedili dietro di me arriva un odorino poco piacevole: qualcuno ha vomitato. Non dei nostri, spero. E insomma, è anche un po’ presto per ubriacarsi…ma Berlino è una grande città, a Berlino ci si ubriaca ad ogni ora. Io in compenso, ora che il secondo giro sta per finire, avrei voglia, più che di una birra dello späti, di un bel caffè caldo. E di un massaggio per la schiena. La strana posizione in cui scrivo comincia a farsi sentire. Chi abbia la possibilità può farmi pervenire un bel cerotto per la schiena di quelli che irradiano calore? Ho una certa età, io, queste sfide non fanno bene alla salute. E a proposito di salute, qui cominciamo tra poco un nuovo tema, e un nuovo giro. La sanità e Berlino. I medici e Berlino. Ma soprattutto: io e i medici di Berlino. Preparatevi a un qualcosa di forte. Un romanzo dell’horrore. Al prossimo giro. Pronti, partenza…..

That’s Berlin…

Ho detto che avrei parato di me e del mio rapporto con il sistema sanitario tedesco? Ho cambiato idea. È un argomento ben più notturno, adatto alle ombre della mezzanotte, a un’atmosfera che disponga a pianti e stridor di denti. Ora preferisco tornare a Berlino. Anche perché ci siamo concessi una breve pausa alla stazione di Schöneberg.

Schöneberg è tante cose: il quartiere gay per eccellenza, il quartiere dei locali carini, del mercato…ma anche il quartiere un po’ anonimo che circonda la fermata della S-Bahn. Il nostro gruppetto scende rintronato dai giri e dagli odorini non proprio piacevoli del Ring. I francesi tra noi, puntando l’aria come segugi, cercano un ristorante: ma non è tutto così semplice, a Berlino. C’è quartiere e quartiere e ogni quartiere è simile a una città, con una fetta di popolazione abbastanza precisa, un tipo di architettura, di negozi, di abitudini…Per questo a me piace fare la turista in questa città: basta cambiare quartiere e cambia tutto.

Premetto che il destino mi ha trasportato, in tempi non sospetti, in un quartiere che sarebbe poi diventato amatissimo e odiatissimo: Prenzlauer Berg. A Prenzleur Berg ci sono quelli che i francesi chiamano Bobo, e gli italiani i radical chic; gente coi soldi ma che finge di non averli, bambini che vanno in asili ecologici e di design, case dal parquet sempre lucido, negozietti deliziosi di cose deliziosamente inutili…..A Prenzlauer Berg ci sono ristoranti per ogni gusto e misura; così come a Mitte. Thailandese, coreano, vietnamita, turco, italiano, francese….Ma il Ring non passa attraverso il trendissimo quartiere di Mitte. No, ora siamo a Schöneberg e i ristoranti non ci sono. Adocchiamo un poco invitante e scuro bistrot tedesco. Si chiamano “Eckkneipe”, i bar all’angolo. Ed effettivamente si trovano tutti sull’angolo di un palazzo, chissà perché. Hanno anche altre cose in comune: sono scuri, fumosi, la birra costa poco, e sono pieni di vecchietti.

Volete vedere dei vecchietti a Berlino? Non è sempre facile. Li hanno tutti trasportati in periferia, credo, quando si è deciso che Berlino sarebbe diventata una città trendy trendy; quelli che si sono rimasti è perché si sono tutti nascosti nelle Eckkneipen e nessuno ha pensato di andarli a cercare lì. Ad ogni modo il nostro gruppetto ha bisogno di prese di corrente e wi fi, e il posto non ci sembra il più adatto. Anche se qualche vecchietto sicuramente farebbe un po’ di colore, una macchia di grigio diverso nel grigio della giornata. Alla fine mangiamo in una panetteria, guardando i marciapiedi (grigi, l’ho già usato questo aggettivo?) inumidirsi di pioggia, le rare auto passare, godendoci la compagnia di un solitario ubriacone (sono certa che lo incontreremo tra poco di nuovo sul ring, il posto più caldo dove passare la giornata, se non si ha un tetto sopra la testa). That’s Berlin, folks…

E però: a me piace questa Berlino non turistica. È la Berlino che permette ancora di scoprire delle cose. La Berlino dove donne arabe si affacciano alle finestre per richiamare i loro bambini, hanno dei meravigliosi fazzoletti in testa che le fanno sembrare dei pesci colorati; la Berlino dove tra le vetrine degli Späti, di dentisti con le insegne in turco e i magici negozi che riparano ogni cosa, dai cellulari ai frigoriferi, esiste una microumanità diversa dai giovani tutti belli, tutti alla moda, tutti perfetti che affollano la Kastanienallee o altre strade del Centro; un’umanità capace di stupirmi, come un palazzo bizzarro, di un colore assurdo, tra facciate tutte uguali. Ieri per esempio ho visto una casa bassa, ad un piano, color verde pisello, con ricche decorazioni liberty alle finestre, in una via commerciale del sud di Berlino. Era una sala da ballo e se ne stava lì, come a dimostrarmi qualcosa. Anche se non ho capito bene che cosa. Ma era la stessa cosa che mi diceva il centro di massaggi – sempre alla periferia sud di Berlino – dove ieri, su consiglio di un’amica, sono andata per farmi passare il mal di schiena che mi perseguita.

Sentite questa storia. Se un’amica vi consiglia un centro dove fanno massaggi con le pietre di giada, voi cosa vi aspettate? Io penso ad un centro luminoso, con orchidee dappertutto, un’elegante signora alla reception, e così via. Niente di tutto ciò. Il piano terra di un condominio fine Ottocento, un po’ sgarrupato, in una strada deserta e silenziosa. In vetrina piante finte e qualche fiorellino di plastica. All’ingresso una bicicletta. All’interno, un tavolino (per prendere il tè) e una vecchia signora cinese che si avvicina silenziosissima e in tedesco pronuncia la seguente frase: “Scalpe li, giacca là”. Non capisco bene cosa intenda, così mi ripete la frase due o tre volte. Alla fine noto che ogni angolo dell’appartamento (perché di un appartamento si tratta) è pieno di lettini come i lettini di ospedale, da cui, sotto coperte militari, occhieggiano delle facce di tutti i tipi. Giovanotti, ragazze, vecchiette….Sono un po’ perplessa, ma la signora cinese mi fa sdraiare su uno dei pochi lettini liberi, mi copre con la coperta, schiaccia un po’ di bottoni e mi dice: “Massaggio fa minuto male, tu pensa vacanza, vacanza, poi bene”. E così mi lascia in balia di un lettino che si agita sotto di me come un mare di lava, rollandomi la schiena in su e in giù. La signora di fianco, dalla capigliatura che sembra un fiammifero acceso, si gira verso di me, mi dice “Non è mica tanto rilassante” e crolla in un sonno profondo. Io mi concentro sulla mosca surgelata sul soffitto e – miracolo – mi rilasso sul serio. Dopo quarantacinque minuti il lettino smette di ondeggiare, io pago cinque euro, prendo un tè insieme a due ragazze turche e alla signora con i capelli come un fiammifero acceso, chiacchieriamo amabilmente per un altro quarto d’ora, e penso: That’s Berlin, folks….

E intanto rolla e oscilla anche il vagone del mio treno. I sedili del Ring hanno annullato le ultime tracce del massaggio benefico. Siamo al quinto giro, o al sesto? Comincio a perdere il conto. Sono quasi le cinque, e con l’oscurità (fuori il grigio grigio è diventato grigio viola, cominciano ad accendersi le prime luci) aumentano anche i venditori di giornali di strada. Borbottano tutti la stessa cosa, come una preghiera. “Sono senza tetto, la sfortuna, il destino, datemi una mano…”

Non c’è niente di meglio del Ring per capire che Berlino è una città povera. Un abitante su tre vive di assistenza sociale. Basta uscire dalla bolla dove viviamo noi stranieri “europei” per capirlo. Qui giriamo intorno alla periferia e in centro, in questo momento, brilla il tappeto rosso della Berlinale, e sembra lontanissimo. E allora mi viene in mente quello che mi diceva una mia cara amica slovena, molti anni fa, quando ero appena arrivata a Berlino. Studiavamo tedesco alla stessa scuola, avevamo la stessa età e ci piaceva bere birra con lo stesso entusiasmo. Ma io avevo un permesso di lavoro, lei no. Non me lo scorderò mai quello che mi ha detto. “Ci sono stranieri e stranieri. Tu sei una straniera di serie A, io di serie B”. Il tuo accento italiano, mi diceva, è “süss”, carino, il mio accento est europeo minaccioso. Appena apro bocca mi guardano malissimo.

Era tanto tempo fa. Non so che fine abbia fatto, ci siamo perse di vista. Non so se sia riuscita a rimanere qui: ai tempi il suo terrore era di ricevere la famosa busta azzurra dell’Ufficio Immigrazione che le ingiungeva di lasciare la Germania. So solo che loro, le mie amiche croate e slovene, N. e J., mi hanno insegnato la bellezza di offrire da bere a tutti pur senza avere un soldo in tasca; la bellezza di commentare la vita con l’umorismo più nero che c’è e cavarsela sempre; la bellezza di confessare la notte tutti i proprio guai a dei perfetti sconosciuti, e raccontare, raccontare, raccontare, come se solo il racconto potesse salvarti la vita, finché non arriva l’alba e sei talmente rintronato da non sapere nemmeno più dove hai parcheggiato la bicicletta. Se avessi una birretta sottomano brinderei alla loro salute, ma non ce l’ho. Allora mi mangio un mon chéri e brindo con quello: dovunque voi siate, N. e J., alla vostra. Perché Berlino è anche quelle persone che perdi di vista anche se non vorresti mai e poi mai perderle di vista.

Sono quasi le otto. Fuori è buio, luci e buio, buio e luci che scorrono tra i nostri riflessi nei finestrini, e il vagone sembra più accogliente. Sono cambiate le persone che ora viaggiano con noi sul Ring: è sabato, coppiette pronte per l’uscita serale si tengono per mano e guardano sorridendo con un po’ di compassione noi forzati della scrittura, isolati ognuno con il suo computer, e i due performer che ci accompagnano. C’è uno sketcher che disegna il paesaggio e un simpatico svizzero, un po’ pazzo  – ho l’impressione che gli svizzeri siano tutti un po’ pazzi, sotto sotto – che batte una poesia su una vecchia macchina da scrivere arancione. Il nastro d’inchiostro si è seccato ed è costretto a ripassare le parole con la biro.  C’ è qualcosa di assurdamente tenero in quel gesto: chinarsi su un foglio a ripassare le lettere dell’alfabeto con la biro, per tornare a formare parole, per salvarle, in qualche modo. Alle volte mi viene da pensare che noi non facciamo che questo: tornare coi ricordi sul passato per ripassare i tratti delle persone, degli avvenimenti che ci hanno segnato, tornare a dare loro un senso e una forma. Renderli di nuovo leggibili. Vecchi amori, luoghi, persone care che se ne sono andate, tutte le cose che non si riescono ad abbandonare.
Ah, il Ring, che pensieri filosofici. Sarà il fatto di girare in tondo, che ispira. Ogni tanto cambiamo direzione, ma il percorso è sempre quello. Il performer ha smesso di ripassare le parole con la biro, e dalla biro è passato alla birra. Sarà un segno del destino. Ma scrivere, credetemi, è più bello quando fuori fa buio. Il buio funziona un po’ da lasciapassare e quello che si scrive sembra improvvisamente più profondo, più intelligente. Giuro, non ho ancora bevuto alcool: è solo effetto dell’oscurità che rende il vagone una specie di nave dove tutto è possibile. Ci vorrebbe un po’ di musica, ora: un’orchestra, come su un transatlantico. Possibile che, con tutti i musicisti di strada che ci sono a Berlino, proprio nessuno abbia voglia di farci visita? Venite. Mandateci musica, salsiccia, polenta, storie, e altri generi di conforto per affrontare la notte.
Sono le otto passate. Fuori è buio, luci e buio, buio e luci che scorrono tra i nostri riflessi nei finestrini, e il vagone sembra più accogliente. Sono cambiate le persone che viaggiano sul Ring: è sabato, coppiette pronte per l’uscita serale si tengono per mano e guardano sorridendo con un po’ di compassione noi forzati della scrittura, isolati ognuno con il suo computer, e i due performer che ci accompagnano. C’è uno sketcher che disegna il paesaggio e un simpatico svizzero, un po’ pazzo  – ho l’impressione che gli svizzeri siano tutti un po’ pazzi, sotto sotto – che batte una poesia su una vecchia macchina da scrivere arancione. Il nastro d’inchiostro si è seccato ed è costretto a ripassare le parole con la biro.  C’ è qualcosa di assurdamente tenero in quel gesto: chinarsi su un foglio a ripassare le lettere dell’alfabeto con la biro, per tornare a formare parole, per salvarle, in qualche modo. Alle volte mi viene da pensare che noi non facciamo che questo: tornare coi ricordi sul passato per ripassare a penna i tratti delle persone, degli avvenimenti che ci hanno segnato, tornare a dare loro un senso e una forma. Renderli di nuovo leggibili. Vecchi amori, luoghi, persone care che se ne sono andate, tutte le cose che non si riescono ad abbandonare. Ah, il Ring, che pensieri filosofici. Sarà il fatto di girare in tondo, che ispira. Ogni tanto cambiamo direzione, ma il percorso è sempre quello. Il performer ha smesso di ripassare le parole con la biro, e dalla biro è passato alla birra. Sarà un segno del destino. Ma scrivere, credetemi, è più bello quando fuori fa buio. Il buio funziona un po’ da lasciapassare e quello che si scrive sembra improvvisamente più profondo, più intelligente. Giuro, non ho ancora bevuto alcool: è solo effetto dell’oscurità che rende il vagone una specie di nave dove tutto è possibile. Ci vorrebbe un po’ di musica, ora: un’orchestra, come su un transatlantico. Possibile che, con tutti i musicisti di strada che ci sono a Berlino, proprio nessuno ha voglia di farci visita? Venite. Mandateci musica, salsiccia, polenta, storie, e altri generi di conforto per affrontare la notte.
Ostkreuz, Westkreuz: la croce dell’Est, la croce dell’Ovest. Alla mente vengono immagini di canyon, steppe, monti aguzzi con croci smisurate, un po’ come a Rio de Janeiro. La verità è molto più banale: due stazioni, una piccola, all’Ovest, l’altra un cantiere infinito, in fase di ingrandimento, all’Est. Ma le vere polarità di Berlino sono queste, non nord e sud, ma est e ovest. E Ostkreuz ha per me il fascino particolare dell’Est: quello che per la mia generazione (quando ero bambina, bebé, diciamo) stava ancora ben nascosto dietro la cortina di ferro. A Ostkreuz partono i treni per Varsavia, per esempio, che per me, comasca con puntate universitarie nella metropoli milanese, era un nome esotico almeno quanto Zanzibar o Samarcanda. I treni che guardavo passare li ricordo rossi e affumicati  – forse ora sono cambiati. Ma il fascino esotico rimane. L’Est per me è tante cose. È Berlino est  – l’odore di carbone, le facciate annerite e ancora bucherellate dalla guerra, ora diventate tutte color pastello, gli amici che raccontano storie di un paese ormai scomparso, spesso drammatiche, alle volte nostalgiche, come si è nostalgici della propria infanzia, i documentari in bianco e nero – ed è Berlino come punto di incrocio, terreno di sovrapposizioni, di realtà e fantasia, di terreni immaginati che improvvisamente diventano realtà.
A questo proposito vi voglio raccontare una storia, una favola della buonanotte. Ero sul Ring – su questo stesso Ring che oggi sta diventando una condanna a morte per la mia schiena, giro dopo giro – una notte di qualche anno fa. Non era un inverno mite come questo, ma freddo, freddissimo, e stavo tornando, da sola, da una festa. Era per me  un periodo difficile e mi ero ripromessa di uscire, di divertirmi, di prendere parte alla vita notturna berlinese, e distrarmi un po’ . Ma la festa non era come pensavo. Il party, abbastanza noioso, si era trasformato in una festa selvaggia. Un gruppo di americani ubriachi era entrato, senza invito, e aveva messo sottosopra il locale. Me ne ero andata velocemente, prima che arrivasse la polizia, mentre i miei amici cercavano di convincermi ad aspettarli, che saremmo andati in un altro club. Ma non ne avevo voglia. Ero salita sul ring stanca, infreddolita, e depressa più di prima. Come in un film guardavo la neve fioccare e la città cambiare faccia sotto la neve. E all’improvviso sono entrati quei due – come in un film, esattamente come in un film. Lui un vecchietto da favola, mite, gentile, i capelli bianchi infiocchettati di neve, gli occhi azzurri e limpidi. Indossava un loden verde scuro e teneva tra le mani un oggetto impacchettato con cura. Non portava guanti e le mani erano paonazze dal freddo, in contrasto con il viso molto pallido, signorile.  Lei – a giudicare dall’età la nipote – era bionda, sottile, con un viso aguzzo come una volpe e si muoveva anche come una volpe, come un animale notturno e veloce. Portava con sé un bagaglio pesante, una grossa valigia. Mi sono messa ad ascoltarli con curiosità, cercando di capire da dove venissero, o dove andassero. Non avevano nulla a che fare con l’ambiente circostante: non con le donne stanche che tornavano dal turno di notte nei locali, non con i ragazzini ubriachi, non con i raccoglitori di vuoti di bottiglia che affollavano il treno. Ho aguzzato le orecchie, ma non riuscivo a capire. Era una lingua come una musica abbastanza malinconica, ombrosa. Mi ricordava qualcosa, ma che cosa?
Mi concentro. Il ritmo della lingua prende forma, si solidifica in un ricordo confuso, onirico. Un tram. Una città di statue, di monumenti, di dignità strana, di cimiteri e ragazzi che suonano per le strade. Nello stesso momento l’uomo si gira verso di me e mi sorride. Avrà notato che lo sto guardando? Forse, ma non è quello. In perfetto tedesco mi chiede, semplicemente e inaspettatamente, se sono stanca.
“Sì”, gli rispondo automaticamente, senza nemmeno riuscire a sorprendermi. Lui mi sorride ancora. È un sorriso senza compatimento, senza malizia, senza secondi fini. Un sorriso semplicemente umano.
“Mi dispiace”, dice. La ragazza invece non mi guarda nemmeno. È troppo occupata a compitare i nomi delle stazioni, evidentemente non conosce Berlino e non vuole perdersi. Poi accosta il capo a quello del suo accompagnatore, gli confabula qualcosa nell’orecchio. “Venite da lontano?” chiedo io.
“Sì”, risponde lui, ma non accenna a dire da dove.
“Avete bisogno di qualche informazione? Posso aiutarvi in qualche modo?”
Lui vorrebbe rispondere, ma lei lo guarda malissimo, con una sola occhiata lo costringe al silenzio. Che nascondano qualcosa in quel pacchetto, che lui tiene tra le mani come se fosse un tesoro? La S-Bahn si sta svuotando, la neve cresce, cresce, la notte è sempre più profonda. Quante fermate mi separano ancora da casa? Troppe. Ma lo sguardo del vecchio, così celeste e tranquillo, mi tranquillizza e mi culla. Potrei addormentarmi, mentre loro continuano a confabulare piano. E poi la porta del treno si spalanca, entra una ventata di gelo e di neve, entrano due uomini panciuti e vestiti di scuro. “Fahrscheinkontrolle!” proclamano a gran voce, sono lì per controllare i biglietti. È questione di un attimo: la ragazza afferra la valigia e spinge il vecchio fuori dal treno, il pacchetto rimane sui sedili, lui mi guarda, è uno sguardo implorante, urla qualcosa come “trichlich”, “trichtiir”…Una parola come un richiamo per uccelli, come un trillo, un gorgoglio, l’inizio di una canzone. Mi alzo per afferrare il pacchetto e lanciarglielo, ma è troppo tardi. La porta si chiude, il treno riparte. Resto per molto tempo con il pacchetto in mano. Scendo dal treno alla fermata successiva, li aspetto, torno indietro. Poi rinuncio. Lo porto a casa con me. Lo guardo, impacchettato com’è con cura, indecisa. Non so se ho il diritto di aprirlo o meno. Magari dentro c’è qualcosa di molto intimo, privato, personale. Chissà. E poi, un giorno, una mattina di noia, costretta a casa dall’influenza, mi decido. Mi siedo al tavolo della cucina, con una tazza di tè, e inizio a tastare la carta. Ha una strana forma, come un cono. Poi penso che no: aprirlo sarebbe troppo scorretto. La sera stessa esco di casa, salgo sul Ring, e lì lo abbandono, su un sedile, al suo destino.
Qualche anno dopo – io ho di nuovo un lavoro, il peggio è passato – mi trovo a cena da amici. È una cena come piace a me, con gente con tante esperienze diverse, insieme a bere vino e a mangiare chili con carne attorno a un tavolo così grande che sembra poter ospitare tutto il mondo. Di fianco a me c’è un ragazzo francese. Si chiama Innocente, perché è di origine italiana, e vive a Praga. Gli racconto la storia che ho raccontato a voi. Non la racconto a tutti, perché è talmente strana che credo che alcuni potrebbero prendermi per pazza. E lui mi chiede, un due o tre volte, com’era la parola che il signore mi aveva urlato e che io avevo creduto essere il nome di una donna perduta, o qualcosa di altrettanto romantico. “Trchrich”, dico io ,”Trchistis…una cosa così. Aggiungo che forse era un saluto; forse il signore voleva augurarmi, nella sua magica lingua, buona fortuna, molta felicità, o rivelarmi un segreto, un nome come una chiave magica. Forse il nome dell’oggetto misterioso che era nel pacchetto, chissà. Innocente si mette a ridere. Ride tanto che non la smette più. “Imbuto”, mi dice. Io penso che forse non ho capito bene.
“Cosa?”
“Imbuto!”
 Anche se ci siamo appena conosciuti, non mi trattengo e gli dico, abbastanza sgarbatamente: “Ma sei impazzito?” “No, scusa – dice lui ricomponendosi – non volevo prenderti in giro…Aspetta”
Prende il cellulare, apre la pagina di google, digita qualcosa, mi mostra il risultato.
„Trychtýřv“, c’è scritto, con la traduzione a fianco in italiano. Imbuto.
“È ceco”, mi spiega Innocente, ed è l’ultima parola che scambiamo sull’argomento.
Bene, dove eravamo rimasti? Che ho bisogno di un cornetto caldo? Alle cinque del mattino, direte voi, sciocchina: vai piuttosto a cercarti una bottiglia di vodka, hai più possibilità di successo. E invece no. Si può. In realtà si può già  – se sono fortunata-  qualche ora dopo mezzanotte. Il mio panettiere, a cui va qui un pensiero di gratitudine, apre di notte: è uno spiraglio, la porta bloccata con una sedia di plastica, ma chi lo sa, come me, bussa con aria complice, si infila nel pertugio e ne esce con le braccia cariche di cornetti che grondano cioccolata, ancora calda, che sporca dappertutto. Ma si tratta di un’eccezione, soprattutto in un quartiere tranquillo come il mio. A Kreuzberg, dove la notte dura tutta la notte, ci sono panettieri turchi che vendono ai “Partygänger” (parola composta, la lingua tedesca è magica per questo, che significa “chi va ai party”, un po’ come se fosse una professione) börek, ovvero la pasta sfoglia ripiena di spinaci, cornetti stantii e dolci ripieni di miele e di altre cose dolcissime e possibilmente molto, molto appiccicose, di cui non sono ancora riuscita a capire l’origine.
Ripieni anche loro di miele e di alcolici, i Partygänger, ristorati, se ne volano verso altre avventure. A Prenzlauer Berg invece la notte finisce presto, come per Cenerentola, perché dalle mie parti il ritmo è dato dai risvegli dei bambini, dal lavoro, e dall’età che avanza. E quindi i panettieri aprono presto, sì, ma nel senso che aprono alle sei del mattino, per vendere caffè e panini ripieni di burro  agli assonnati pendolari. E qui faccio una breve parentesi sul burro, anche se so che a quest’ora gli stomaci sono delicati e il tema difficile. Ma mi sento comunque in dovere di informarvi che il burro, i tedeschi, lo mettono con tutto e su tutto, anche se li scongiuri di non farlo: con i pomodori, il salame, le uova, la nutella, i carciofi, le olive, le caramelle al rabarbaro…Perché sennò – questa è stata la spiegazione di una panettiera ad un’amica napoletana ottima cuoca, che inutilmente protestava, il panino non tiene, e gli ingredienti scivolano via. Io non ci avevo mai pensato, ma da questo punto di vista la cosa non fa una piega. Il burro come collante universale, insomma.
Sono due scuole di pensiero, due civiltà, altro che religione: cosa incolla meglio, il burro o il miele? È l’Oriente contro l’Occidente. C’è anche una terza scuola di pensiero, quella italiana, quella che come collante per la colazione usa la Nutella. E che mangia tonnellate di biscotti.
I biscotti per la colazione sono una cosa che ad un tedesco non gliela devi nemmeno nominare, sennò chiama l’ufficio d’igiene, gli assistenti sociali, la buon costume, e ti fa arrestare. A colazione ci vogliono il müsli, il pane, il prosciutto, e soprattutto tanto tanto burro, che come si sa è molto sano. Su cosa mangiare a colazione ci sono scontri e litigate epiche. Su pochi argomenti gli italiani e i tedeschi sono così sensibili come la colazione. È una questione ideologica, non di gusti.
Mio figlio invece, ecumenico, un vero prodotto della nostra Europa cosmopolita, a colazione usa il burro per incollare al panino i biscotti.  All’inizio ero perplessa, ora sono orgogliosa. La volevamo o no, l’Europa unita? E più unito di così…..
C’è una novità. L’alba, il sole. Palazzoni anonimi della DDR appena arrossati, il celo che si fa trasparente, le finestre dorate. Le ombre nere degli alberi ritagliate contro l’aria fredda. Le facce stanche di chi sta andando al lavoro o di chi sta tornando da una festa. C’è una cosa che io chiamo la bellezza della bruttezza. Esiste, ve lo assicuro. La si vede solo in certi momenti, con la luce giusta, magari dopo poche ore di sonno, quando si è più ricettivi per tutto. Berlino è piena di bellezza della bruttezza. Per questo, anche se gli spazi qui sono immensi, le distanze enormi, e le strade così larghe e comode che vien voglia di percorrerle velocemente in auto, in bici o con i mezzi pubblici, io sono una sostenitrice accanita dell’andare a piedi.
Perché la bellezza della bruttezza si nasconde nei dettagli. Nelle costruzioni popolari della ex Berlino Est, dalle geometrie rozze, i colori assurdi, con le mille finestre ricamate da impossibili tendine di pizzo e piantine, che tutte insieme, come in una musica popolare, alla fine rivelano una loro strana armonia. Tra queste costruzioni anonime alle volte si nascondono ancora villette del secolo passato, dal tetto a punta, diroccate, in giardini inselvatichiti. Ce n’è una proprio vicino al Municipio di Lichtenberg, per esempio: una specie di relitto di un’altra epoca, un luogo ideale per un romanzo, spiaggiato di fianco al lucido edificio pubblico tutto vetro, plastica e alluminio. Oppure palazzi di inizio novecento, serpentoni dalle finestrelle quadrate e dalle decorazioni kitsch sui portoni, cerbiatti, delfini, fiori, con aiuole malinconiche di fronte all’ingresso, edilizia popolare di più di un secolo fa, pensionati che portano a passeggio il cane, strade e strade dove i turisti non si avventurano, perché di fatto non c’è nulla da vedere, se non per chi ha molta pazienza e un po’ di gusto dell’orrido.
Anche ora, dai finestrini della S-Bahn, nell’azzurro lucido dell’aria ancora appena appesantita dalla notte, compaiono dettagli che ieri erano confusi: a Wedding, un palazzo il cui tetto ha ceduto, sulla facciata rimane l’insegna malinconica di un Döner, le finestre sbarrate da assi di legno; a Westhafen, porto industriale sul canale, dove vecchi magazzini sono trasformati in biblioteche, le montagne di carbone che giacciono sotto la poca neve; case e case, palazzi fine ottocento restaurati alla meno peggio, vecchie fabbriche di mattoni il cui interno è crollato e le finestre si affacciano sul cielo e gli alberi retrostanti; e poi eccoli, con i loro giardini ben curati, le piante potate appena spruzzate di bianco, ecco sotto di noi gli orti.
Gli orti urbani; non saprei come chiamarli altrimenti. In realtà li chiamavo “giardinetti”, “giardinetti con casette”: insomma, le persone a cui cercavo di spiegare il concetto, tutto tedesco e altamente civile, degli “Schrebergarten” non capivano niente. Poi una mia amica mi ha detto, un pomeriggio, semplicemente: “Allora, mi porti a vedere ‘sti orti?” e da allora li chiamiamo così.
A Berlino, se hai fortuna, e ti metti su una lunghissima lista di attesa, puoi avere in affitto un pezzettino di terreno, con una casettina di legno sopra, più o meno bella, più o meno comoda, in un appezzamento di terreno pieno di altri giardinetti come il tuo, attraversati da sentierini pedonali. Puoi avere un orto, insomma. Sono un pezzo di natura in città  e ce ne sono parecchi, disseminati in tutta la  zona urbana. Vicino a casa mia (sì, lo so, in queste pagine lo sto descrivendo come un posto magico: ma è il mio Kiez, il mio rione, e come tutti i berlinesi, ci sono affezionata, e lo difendo a spada tratta come il posto più bello di Berlino), insomma, vicino a casa mia, seguendo i binari della SBahn che taglia Berlino da Nord a Sud, succedono due miracoli: se segui un viale alberato che in primavera diventa una spettacolare navata di fiori di ciliegio (alberi di ciliegio regalati e importati, non mi ricordo più per quale motivo, direttamente dal Giappone), d’improvviso ti sembra di essere lontano da tutto e da tutti; e poi arrivi agli orti.
Io di natura, frutta e verdura non me ne intendo: mi piace passeggiare, mi piacciono i colori, mi piace la luce e il silenzio. Per me tutti gli alberi hanno un solo nome comune collettivo: albero. Gli alberi sono alberi e le foglie sono foglie. Ma la mia amica M., lei è impazzita di gioia: riconosceva ogni fusto e ogni arbusto, ogni cespuglio e pianta, ne osservava le foglie, il colore, la crescita con occhio da intenditrice,  diceva “ah, ma allora c’è anche qui…” L’orto, per me che sono di natura urbana, è un luogo dove passeggiare: per il resto mi macchierei di involontario verduricidio. Ma per altri, più fortunati di me, più legati alla terra, l’orto rappresenta qualcosa di importante. E mi piace vedere la cura con cui i cespugli di rose vengono potati, con cui i meli espandono i rami, è bello vederne i frutti gialli e rossi, e allora anche a me viene la tentazione di mettermi in lista d’attesa per avere il mio orticello, mi piacerebbe pensare di poter raccogliere le mie fragole, le mie carote, le mie zucchine e di invitare gli amici a mangiare sotto il mio ciliegio, d’estate. Poi penso alla pianta di rosmarino che langue sul mio balcone, attaccata alla vita non certo grazie alle mie cure, ma solo ad una tenacissima volontà di sopravvivenza, e soprassiedo. Cuique suum, è il mio motto preferito. A ciascuno il suo, e il lo intendo come: a ciascuno il suo campo. Il mio, gli orti, è quello di passeggiarci dentro e descriverli. Ma non di farci crescere cose dentro. Preferisco aspettare di conoscere un’allegra famigliola ortodotata che mi inviti spesso nel loro giardino.
E adesso vi dico qual è il problema di essere on line per così tanto tempo. E di scrivere per cosi tanto tempo. È come scendere dal Ring, sedersi per una pausa in un caffè ed avere l’impressione di continuare a rollare, a rollare, a rollare….E così non riesci a smettere di controllare cosa è andato on line; di vedere se ci sono reazioni (siete pigri, ce ne sono pochissime) e, ancora peggio, non riesci a smettere di pensare a tutto in funzione della scrittura. Ora, per esempio: siamo in un caffè abbastanza anonimo. Non c’era molta scelta; a quest’ora della domenica anche i caffè sono pigri, e questo è uno dei pochi aperti nel quartiere dove, per motivi fisiologici, abbiamo deciso di scendere dal Ring. Potremmo chiacchierare, ci scambiamo qualche battuta, ma poco pochi minuti eccoci tutti di nuovo impegnati a scrivere. Si parla di dipendenza da videogiochi, da alcool, dalle sigarette, ma vi assicuro: esiste anche la dipendenza dalla scrittura. È quando vivi e pensi già a come trasformare in parole quello che stai vivendo.
Tento di concentrarmi sulla soprelevata di ferro verniciato in  verde scuro della metropolitana su cui si affacciano le vetrate del bar, che mi ricorda un enorme fontanella, come quelle che c’erano ai giardini vicino a casa dei miei genitori; guardo il cielo azzurro, gli alberi spogli, i jogger che mi passano sotto gli occhi, la città ormai definitivamente sveglia. Sento le risate e le chiacchiere di una comitiva di spagnoli che è entrata assieme a noi. Questo bar, dicevo, non è il mio preferito. Si tratta  di una catena americana, non lo amo molto, ma l’odore è buono, è odore di pasticceria, l’odore di domenica mattina nella mia lontana piccola, dolce, amatodiata città, quando ci si ritrovava in piazza a prendere un caffè e a guardare il lago scintillante e si programmavano le gite del pomeriggio.
 È strano come un odore abbia il potere di trasportare cosi in fretta e così prepotentemente nel passato. Ho letto da qualche parte che la memoria degli odori è conservata nel nucleo più antico del cervello: è per questo che ci governano molto più nel profondo e molto più di quello che pensiamo, consciamente o inconsciamente. In tedesco, per dire se una persona ti sta simpatica “a pelle”, si dice “man kann sich gut riechen”, ci si può annusare, uno ha un odore confacente all’altro.
Una mia cara amica, P., che come me vive in modo un po’ schizofrenico, sospesa tra diverse lingue e diversi paesi, ha raccontato una volta un’esperienza che ho avuto anche io: camminare per una città straniera, al buio, al freddo, e d’improvviso sentire un odore di spiaggia, di sabbia calda, mare, crema doposole, e sentirsi invadere da un irresistibile sentimento di felicità. La felicità e la nostalgia. Gli odori e la nostalgia. Binomi inscindibili. Io qui mi godo il sole che dalle vetrate del bar mi arriva dritto in faccia, e nello stesso tempo penso all’odore di pasticceria, alla facciata chiara e limpida del Duomo di Como nel sole mattutino. Vivere altrove vuol dire fare i conti in continuazione con quel che è cambiato e con quello che si può inventare di nuovo; con un mondo del passato che in parte è un mondo inventato, idealizzato, rimasto immobile nel tempo come un miraggio e che di fatto non esiste più, o non è mai esistito.  Alle volte penso che ormai il posto dove mi sento più a mio agio è sugli scomodi sedili grigioarancioni di easy jet: né qui, né là.
Poi ho dei momenti di attivismo in cui penso di trasportare il qui nel là, o il là nel qui, a seconda dell’umore, ma durano poco, perché la mia proverbiale ignavia prende il sopravvento.
Per un certo periodo ho pensato per esempio che sarebbe stato bellissimo introdurre nella mia vita berlinese il rito del pranzo domenicale, da fare con gli amici italiani, come una grande famiglia. L’unico problema è che bisogna cucinare, e io non so cucinare. Cioè, so fare la pasta con il ragù; ma proporla tutte le domeniche…E poi che noia, fare la spesa ogni sabato e cucinare il ragù. In base a queste considerazioni ho tratto l’unica conclusione logica e ho cercato subdolamente di convincere una serie di amiche molto brave a cucinare a organizzare il pranzo a casa loro. Non so perché, ma non sono state entusiaste come pensavo. Ergo, niente pranzo domenicale. Nessuno, oggi, mi accoglierà al ritorno dal Ring con un piatto di lasagne fumanti. Il che non è nemmeno male: al suo posto un panino al bar, nanna, e soprattutto kino, cinema, cinema….Tra poco sarò libera dal Ring – ancora un paio d’ore – e tenterò di disintossicarmi dal treno, dai paesaggi che scorrono, dalla scrittura, e di dedicarmi finalmente alla Berlinale. Anzi, vediamo se le mie amiche che si sono rifiutate di organizzare ogni domenica un pranzo e di invitarmi sono almeno disponibili per procacciarmi qualche biglietto….

7 réflexions sur “Texte de Nicoletta

  1. ….leggendoti, ho percepito i colori, i profumi,le vibrazioni e le atmosfere di questa umanità berlinese in movimento,le prime pennellate di questa giostra metropolitana che stai iniziando a dipingere….attendo il continuo quì sull’Aurelia,direzione Elba. 🙂

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  2. Bello leggere episodi su Berlino in italiano da berlinese doc…spero che la tua schiena tenga ancora..un saluto an die ganze « Truppe » d’ecrivains du Ring ! Next time we’ll drop by with some musique (song title ‘dalla biro alla birra’) e tanta birra dallo Spaeti !!!

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  3. La ringrazio per questo testo bellissimo su una città ché amo anché io per esserci vissuto e averci imparato un po d’italiano. Cercherò su internet altri testi di Lei perché mi piacerebbe molto leggerne. La Sua evocazione di Berlino dal niente e dal grigio del Ring mi ha incantato.

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